entre instantes de dialogo y de ociosas esperas,
en bancos de plaza, muros urbanos o pupitres de clases,
donde pudiera trazarlas yo, o ... apremiaran ellas mostrarse...
son mis Hechizeras protectoras de la tierra,
o magas guerreras de lo sutíl e invisible,
terrenales musas de mi mundo mágico!
dibujadas en plumilla tinta china Rapidograph sobre papel de trapo
por Nunzio Cedrola D'Amore ( reservados todos los derechos )
Hechizeras...desde lo más profundo del sueño !
dibujadas en plumilla tinta china Rapidograph por Nunzio Cedrola D'Amore
más...Hechizeras...desde lo más profundo del sueño !
dibujadas en plumilla tinta china Rapidograph por Nunzio Cedrola D'Amore


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Ecate (Solstizio
2005)
di Maria G. Di Rienzo
Dee e dei sono presenti in ogni cultura umana. Sembrano doversi far carico di tutto, dalla trasmigrazione delle anime attraverso incarnazioni multiple alla cura della nostra salute fisica, dal controllo del tempo atmosferico alla rimozione della guerra.
Curiosamente antropomorfi, sono spesso descritte/i come esseri umani molto, molto grandi: il che dovrebbe farci riflettere un po’ sulla nostra presunzione come specie. Però è probabile che le divinità ci siano servite come principio produttivo, nel corso della nostra evoluzione. Infatti, come esseri umani, ci facciamo domande sull’essenza e sull’identità.
Le divinità suonano almeno in apparenza come risposte, sebbene poi inevitabilmente creino altre domande. Com’è ovvio siamo solo noi umani ad aver bisogno di domande e risposte sul chi siamo e perché siamo qui, sulla natura del divino e dell’umano, sul potenziale effettivo delle nostre capacità: un albero, in effetti, potrebbe esistere in uno stato senza tempo, privo com’è del fardello della mente umana, e le mie gatte sono assai meglio equipaggiate di me per sperimentare un amore trascendente ed incondizionato, poiché il loro ‘corpo emotivo’ eclissa di gran lunga il loro ‘corpo mentale’.
Una cosa la sappiamo ‘scientificamente’, se volete: ognuno di noi è la genesi incarnata, poiché reca in sé le tracce della lunga processione di forme e corpi in cui si è manifestata la vita. Abbiamo danzato fuori dalle acque per entrare nelle paludi, e dalle paludi ci siamo arrampicati nelle foreste, e dalle foreste abbiamo scalato montagne, e così via. I processi biologici hanno sviluppato culture, espresse da creature che si erano ingegnate ad ampliare i propri ‘attrezzi’ funzionali e percettivi, passando dalla mera sopravvivenza a sofisticate interazioni sociali, e producendo l’astrazione e la riflessione.
Abitando forme umane, abbiamo iniziato consciamente a possedere e co-creare la nostra stessa evoluzione. Abbiamo iniziato a tratteggiare l’idea di un sé umano sulle pareti delle caverne del Paleolitico, uscendo dall’Eden dell’esperienza pura, senza qualificazioni, per muoverci in un paesaggio dove le creazioni della nostra mente avevano urgenza di essere maneggiate quanto gli eventi fenomenici del mondo esterno. La creazione di dee e dei quali ‘specchi’ in cui rifletterci, quali strumenti per entrare in relazione con noi stessi, fu probabilmente utile a questo scopo.
Gli antichi Egiziani agivano a partire da questa premessa quando invitavano dee e dei a dimorare nei loro corpi, ad attivare in essi specifici poteri. Le divinità provvedevano loro un ulteriore livello di conoscenza, che era percepito come dinamico ed attivo, ed inoltre corrispondevano a precise funzioni fisiologiche: Hapi (dio babbuino del Nilo) era il sangue; Khnumm dalla testa d’ariete, che aveva scolpito donne ed uomini sulla sua ruota da vasaio, era le mani; Osiride era la spina dorsale, Iside era il cuore, e così via. Heqet o Heket, che più tardi divenne Ecate, e presiedeva ai crocicchi formati da tre strade, sembra analoga al modo in cui funziona il sistema nervoso umano, per i suoi triplici incroci interni. Heket, dea levatrice tramite il suo totem, la rana, ed Ecate, guardiana del cancello tra la vita e la morte, parlano anche della nostra capacità di cambiare.
Questa figura ci chiama a creare una vita radicalmente nuova a partire dal corpo della vita precedente, si pone al punto di transizione fra uno stato e un altro. Gli archetipi rimandano all’umanità la comprensione di qualità come il valore, la grazia, la magnanimità, eccetera, allargate a dimensioni che la nostra immagine del sé non è abbastanza grande per contenere.
Essi esprimono anche la proiezione dei lati oscuri dell’animo umano, con la stessa modalità di allargamento, includendo tutti i comportamenti malvagi e insensibili che siamo in grado di esprimere. Ma come abbiamo pensato un’entità quale Heket/Ecate, un assoluto rarefatto, in bilico nello spazio e nel tempo? Come essa è maturata nelle nostre menti? L’egiziana Heket, dea rana, si connette agli elementi primordiali della vita umana: è anfibia, umida, vulnerabile. E’ una creatrice partogenetica, che sovrintende ai misteri ed ai riti relativi alla nascita, alla morte ed alla rinascita. Dalle sue gambe aperte fluiscono perle di vita.
La compianta archeologa Marija Gimbutas descrisse, nei suoi studi, le tracce ed i manufatti che indicano una devozione alla dea rana durata circa 10.000 anni: “In lei si incarnavano i poteri della dea della morte e della rigenerazione, essendo le sue funzioni sia di portare alla morte sia di ristabilire la vita”.
Protettrice delle donne, e levatrice alla nascita di tutte le cinque grandi divinità del pantheon di Osiride, Heket sta alla soglia della trasformazione. I cicli di incarnazione e liberazione, la processione delle nascite, delle morti e delle rinascite erano di sua competenza. In numerosi siti archeologici in Grecia, a Roma e nell'Egitto ellenizzato, sono state ritrovate lampade di terracotta dipinte con il sigillo della rana, e portanti l’iscrizione ‘Io sono la resurrezione’.
Amuleti a forma di rana venivano spesso posti sui cadaveri per trasferire ad essi il potere della rinascita. Più tardi, le tombe dei cristiani copti recarono l’incisione di una rana accanto a quella della croce. Connessioni linguistiche collegano Heket all’aspetto della saggezza di dio (Chokmah) nell’albero cabalistico della vita. Gli gnostici in seguito chiamarono questo aspetto ‘Sofia’ o ‘Hagia Sofia’ (hagia = santa, sacra).
L’origine etimologica della parola Chokmah può essere trovata nel Libro dei Morti egiziano: heq-ma’a o heka ma’at, ovvero la ‘Madre della saggezza, della legge e delle parole di potere’. ‘Heq’, che è anche una delle sette anime del dio Ra, è un termine spesso tradotto con ‘intelligenza’. Hagia ed heq hanno dato vita all’inglese ‘hag’ (vecchia, strega) e al tedesco ‘hexe?’ con lo stesso significato. Le ‘parole di potere’ (o incantesimi) sono collegate ad Heket dal termine egiziano ‘hekau’, che indica il pronunciamento di un intento i cui effetti si manifestano immediatamente dopo che esso ha lasciato le labbra di chi lo esprime. La magia della volontà, per così dire.
Con il passare del tempo la percezione e gli attributi conferiti alla figura di Heket/Ecate cambiarono. Ecate fu descritta come una dei Titani, sebbene le sue origini fossero antecedenti al pantheon olimpico. Essendo esistita prima che le tre ondate di Ioni, Achei e Dori invadessero la Grecia, Ecate prese il suo posto tra le altre divinità pre-elleniche come Afrodite, Artemide, Atena/Metis, Demetra, Persefone, Gaia, Era, Rea, eccetera. Fino a quando il suo collegamento alla fecondità non venne oscurato, si disse che era la madre di Circe o delle Tre Grazie.
Gli appellativi che le vengono attribuiti più spesso sono ‘Antaia’ (Colei che incontra) ‘Einodia’ (La dea che appare sulla via), ‘Triodos’ o ‘Trioditis’ (La dea delle vie che si dividono): Ecate Trivia è infatti la dea dei crocicchi, forse il luogo simbolico in cui differenti vie del pensiero antico si incontrano.
Riconosciuta quindi come divinità che estende la sua influenza sui tre regni (inferi, terra e cielo), Ecate diviene un’entità anche ‘celestiale’: Esiodo nel 7° secolo a.C. la descrive come Regina delle Stelle, figlia della vergine madre Asteria (stellata) e destinata ad ereditare il trono di Regina del Cielo. Ma poi vi fu un’ulteriore trasformazione, quella che la sradicò come dea titanica e universale, e sublimò i suoi poteri ‘occulti’ in un quadro di paura e orrore.
Ancor prima del medioevo europeo, molti degli dei dell’antichità furono forzati al buio, ad andare ‘verso il basso’, nel sottosuolo. E vi andarono, dimorando in quel regno di ombre che accoglie gli spossessati e i diseredati. La discesa mitologica di Ecate fu causata dal dispotismo di dei che provavano repulsione per i processi riproduttivi femminili, un effetto delle montanti tendenze misogine nelle culture.
Se prima era stato detto che Ecate dimorava in ogni casa in cui una donna partoriva, ora non doveva più farlo: la si tuffò nel fiume Acheronte, ai confini del Tartaro, nel tentativo di lavare via il ‘potere’ della nascita. A livello simbolico si può dire che la corrente del fiume la trascinò ancor più lontana da ciò che era stata. Dei tre regni, le fu lasciato il mondo sotterraneo, dove divenne l’oscura e supremamente malevola signora della notte. Svilita e maledetta, accompagnata solo da gufi e cani neri, ispiratrice di ogni malvagità e blasfemia.
I funzionari dell’Inquisizione la menzionavano ai torturati come appartenente alle legioni del Male. Il fatto che la figura di Ecate sia stata sconciata sino a tali livelli testimonia la sua profonda precedente penetrazione nella psiche umana. Il suo pathos ed il suo eros erano troppo forti per non essere demonizzati e repressi da chi su quella psiche voleva avere il controllo.
La storia di Ecate ci dice qualcosa sullo sviluppo della nostra storia collettiva come esseri umani, qualcosa di amaro e di troppo frequente.
Forse dovremmo imparare di nuovo a conoscerla, questa iniziatrice e levatrice che si situa agli incroci dell’anima. Se tento di rappresentarla alla mia mente, vedo una donna che mi fa cenno di andare verso di lei. Mi incita a mietere l’intero raccolto che posso avere da me stessa, ad andare oltre ciò che percepisco come confine e che in realtà è la parete di una gabbia che io stessa ho contribuito a costruire.
Mi domanda di riconoscere il primordiale e l’evoluto, l’inizio e la fine, la luce ed il buio, e di metterli in relazione. Mi chiede di guarire, e di diventare intera. Mi pone di fronte alla mia umana ed innata capacità di trasformazione. Mi ricorda che posso evocare i poteri della creazione, che giacciono intatti in me, con la parola: hekau.
E’ tempo di salpare su un nuovo vascello, dice Ecate agli esseri umani. E’ tempo di uscire dalla crisalide e di entrare in una nuova intimità, una nuova vulnerabilità. Aprirsi, apprendere, andare. Metamorfosi. Non c’è d’aver paura: Ecate è una levatrice, e desidera solo aiutarci a nascere.
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Che la complessitá della risposta ( al desiderio espresso ) sia la valorazione sulla capacitá di intedere e la inteligenza espressa nella domanda posta, poi solo il tempo puó dare luce a chi guarda profondo.

Hecate di Joanna Barnum



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